Sono tanti i popoli che hanno preso parte alla storia e all'economia della Sicilia e lasciato sedimenti glottologici. Sicché, a tutt'oggi, sopravvivono, l'una accanto all'altra, reminiscenze linguistiche di diversi periodi: vere e proprie isole, ciascuna con una serie pressoché infinita di sfumature e di inflessioni. Sulla fondamentale orditura del latino si sono innestate, nel tempo, modificazioni lessicali di varia origine, differenziazioni fonetiche e di parlate. Per questo l'idioma siciliano è qualcosa di più di un dialetto e qualcosa di meno di una lingua. E di siffatto linguaggio – impervio per molti versi – Giovanni Dugo, nel solco della nostra migliore tradizione poetica, si è fatto aedo e custode, con le sue filigrane di vernici e di tanti disegni sfilacciati tra i versi, ridestando infine una lingua quale crogiolo di sapienza: una lingua nata nel cuore di tante vite, e riassegnata al suo naturale destino di colorare piccole porzioni del mondo. Una Sicilia, la sua, costantemente rievocata, intimamente rivissuta, e, alla fine ("Sicilia ca t'addeva, Sicilia ca t'ammazza", "Sicilia ca camina, Sicilia a la catina"), drammaticamente ritrovata. La materia ricostruita da Dugo è, soprattutto, il volgo, con le sue antiche "Nduvina nduvinagghia" e "Filastroccula". Il mondo contadino - i "Mitituri cu la carina a lu suli di ggiugno e di ggiugnettu" - con cui egli si sente in intima consonanza in una relazione di medesimezza spinta sino all'identificazione, sicché rimangono esclusi ogni forma di paternalismo o, peggio, di moralismo arcigno e risentito. I suoi "mitituri" non sono bozzetti, ma rimangono uomini, personaggi vivi, cui il poeta Dugo guarda con amore appassionato. Attraverso l'utilizzo di lessemi e di locuzioni gergali - ai più desueti - Dugo ricanta innanzitutto a se stesso il vocabolario della sua terra, riattivandolo e facendone strumento di creazione artistica.